Non ho mai capito davvero cosa significhi essere invisibili, finché non ho sentito dire a qualcuno che l’invisibilità non è assenza, ma presenza non riconosciuta. Non è silenzio, ma voce che si perde nel rumore. Non è nascondersi, ma essere esposte e non notate, come un quadro appeso in un corridoio dove nessuno si ferma a guardare.
Mi chiamo Mita e da fuori sembrerebbe che io non abbia problemi. Ho tantissimi amici, parlo molto (a volte troppo), rido e faccio ridere. So sempre quando intervenire per spezzare un silenzio imbarazzante, per dire la cosa giusta al momento giusto, per alleggerire l’aria. Sono brava a stare tra gli altri. Ho imparato a essere utile, rassicurante, brillante.
Eppure, ogni volta che qualcuno mi guarda, sento che si ferma alla superficie. Gli occhi arrivano fino a un certo punto, poi scivolano via, come se ci fosse qualcosa che gli impedisce l’accesso. Come se fossi schermata da un vetro spesso, da un velo trasparente, da un muro.
Non è una questione di carattere. So essere timida, ma non sono chiusa. È il corpo che abito, il viso che porto. Non ho mai ricevuto uno sguardo che si posasse su di me con desiderio. Ho sempre sentito che la mia presenza veniva apprezzata, mai cercata. Ho conosciuto la stima, la simpatia, l’affetto perfino, ma mai l’incanto. Quella scintilla che scatta quando qualcuno ti guarda e sceglie di fermare lo sguardo proprio lì, su di te.
Poi, una sera di inizio primavera, tornando da una festa in cui avevo indossato tutti i miei sorrisi migliori per non pensare al vuoto che mi portavo dentro, sono passata davanti al vecchio muro dietro al centro sportivo. Era scrostato, pieno di scritte scolorite, frasi lasciate da mani anonime che forse cercavano la stessa cosa che cercavo io, o forse no.
Senza pensarci troppo, ho tirato fuori un pennarello dalla tasca del giubbotto e, in un angolo nascosto, ho scritto il mio nome: Mita. Tre lettere piccole, nere, in mezzo al nulla. Non era una provocazione, né un gesto artistico. Era solo il bisogno urgente di lasciare una traccia, di dire: io ci sono, anche se non mi vedete.
Il giorno dopo sono tornata. Forse per cancellare quella scritta, o per vedere se era ancora lì. Invece, l’ho guardata un po’ più a lungo, e ho aggiunto qualcosa sotto: “Vi accorgete solo di chi brilla fuori. Mai di chi brucia dentro.”
Era una frase semplice, forse persino banale, ma che sentivo vera. Era il mio modo per dire che sì, io bruciavo, anche se nessuno sembrava accorgersene. Che avevo una fiamma viva dentro, ma troppo nascosta per attirare l’attenzione. Una luce che non urlava, che non voleva invadere niente, ma solo essere riconosciuta.
Quando, il giorno dopo, ho trovato una risposta scritta in rosso qualcosa dentro di me si è incrinato. “Chi brucia fa più luce di quanto pensi.” Qualcuno aveva letto. Qualcuno aveva risposto. Qualcuno, forse, mi aveva vista. Non c’era firma. Niente indizi. Solo una frase, ma in quella frase c’era più contatto di quanto avessi sentito in tutta la mia vita in mezzo agli altri.
Così è iniziato un dialogo silenzioso.
Ogni giorno lasciavo un frammento di me sul muro, e ogni giorno trovavo un riflesso gentile, una risposta che non cercava di correggermi, ma di toccarmi, di capire senza invadere, di ascoltare senza giudicare.
Ho scritto: “Rido sempre, ma a volte è solo un modo per non urlare.” E la risposta è arrivata precisa, come se mi conoscesse da sempre: “Chi sa far ridere ha già imparato a salvare sé stesso. E ora può salvare anche gli altri.”
Ho scritto: “Nessuno mi ha mai detto che sono bella.” E mi ha risposto: “Io te lo dico. Sei bella”.
In quelle parole c’era qualcosa che non avevo mai sentito: cura. Non la cura generica di chi è gentile con tutti, ma quella che nasce dall’attenzione vera, da uno sguardo che sceglie di restare, di avvicinarsi piano senza pretendere nulla. Una sera ho trovato una frase diversa, più intima, più rivelatrice: “Ti osservo da giorni. Tu non lo sai, ma io ti vedo.”
In quel momento ho capito che quella persona non era lontana. Era lì, da qualche parte, tra i miei giorni. Forse un compagno di scuola. Forse una ragazza che ho incrociato mille volte senza guardare davvero.
Ho lasciato un biglietto, scritto con la mano che tremava: “Domani, ore 19. Voglio incontrarti. Anche solo per un attimo.”
Il giorno dopo, mi sono vestita senza pensare troppo. Niente trucchi, nessuna difesa. Solo io, così come sono, con tutta la paura di non essere abbastanza e il desiderio silenzioso di esserlo almeno per una volta, una sola volta.
Sono arrivata al muro in anticipo. Ho aspettato. Il sole calava piano dietro le case e l’aria sapeva di pioggia lontana. Stavo per andarmene, con un nodo in gola che cercavo di ignorare, quando ho visto una nuova scritta ancora fresca. Poche lettere: “Clotilde.”
Ho sentito un brivido.
Clotilde è una ragazza della mia scuola. Di quelle che si notano subito in ogni stanza. Capelli tra il castano e il biondo, lisci come seta e sempre raccolti con una leggerezza che sembra studiata e naturale allo stesso tempo. Occhi verdi, luminosi, come se qualcosa dentro di lei fosse sempre acceso. Ha una risata chiara, contagiosa, che si sparge nei corridoi prima ancora che lei entri. È brillante, intelligente, eppure sfuggente come certi sogni che si ricordano solo a metà.
Clotilde non è una figura ai margini. È esattamente al centro delle cose. Sempre circondata da ragazzi che la rincorrono come fosse l’unica stella nel cielo e da ragazze che cercano il suo sguardo con una speranza che non dicono ad alta voce. È una presenza che illumina, che catalizza, che sembra irraggiungibile senza volerlo davvero.
Mai, mai avrei pensato che proprio lei potesse notarmi. Mai avrei immaginato che qualcuno come lei—che può avere tutto, che tutti desiderano—potesse rivolgersi a me nel solo luogo in cui mi sentivo autentica.
E invece, ora tutto si ricomponeva: la delicatezza delle parole sul muro, la capacità di vedere senza giudicare, la scelta di rispondere proprio a me, tra tante. Aveva guardato dove nessuno si era fermato. Aveva scelto me, non per pietà, ma per qualcosa che aveva riconosciuto, forse, perché lo conosceva anche lei. Mi aveva vista. E io, forse, avevo cominciato a vedere me stessa.
Il giorno dopo l’ho incrociata nei corridoi. I nostri sguardi si sono sfiorati, poi fermati. Lei ha sorriso. Non un sorriso timido, né complice. Un sorriso pieno, vero. Per la prima volta ho sentito che quello sguardo non mi attraversava, ma si posava su di me con la stessa intensità con cui io avevo cercato per anni di essere vista.
Il muro non è crollato, ma ha cominciato lentamente a creparsi. Non per un amore improvviso, né per una frase salvifica, ma per la semplice, disarmante verità di essere riconosciuta da qualcuno che ha avuto il coraggio di guardare dove nessun altro aveva osato. Da quel giorno, quando mi guardo allo specchio, non cerco più un volto da cambiare. Cerco il fuoco. E so che, anche se non brilla come gli altri, la sua luce a qualcuno può bastare.
Qualche giorno dopo l’ho incontrata di nuovo, ma stavolta non tra le mura di scuola. Era pomeriggio, il cielo un po’ grigio, la città che si svuotava piano. Lei era seduta su una panchina vicino al parco con un libro aperto e lo sguardo perso, non nella pagina, ma in un punto vago dell’orizzonte. Non c’era nessuno intorno. Solo lei. E io.
Mi sono avvicinata senza sapere se avrei avuto il coraggio di fermarmi, ma Clotilde ha sollevato lo sguardo come se mi stesse aspettando da sempre. Ha chiuso il libro e ha detto, semplicemente: “Ci voleva un muro per farci incontrare.”
Io ho sorriso, cercando di nascondere il tremito che mi saliva nella voce. “E adesso?”
Lei mi ha guardata con quegli occhi chiari che non chiedono il permesso di entrare, ma lo fanno con delicatezza, come chi sa che ogni cuore è fragile: “Adesso lo abbattiamo. Se ti va.”
Non abbiamo detto altro, non ce n’era bisogno. Ci siamo sedute lì, una accanto all’altra, come due persone che non si erano mai parlate, ma che si erano già dette tutto. E per la prima volta, non mi sono sentita fuori posto. Non mi sono sentita “meno”. Mi sono sentita “parte”.
Un altro muro, silenzioso e antico, si è incrinato in quel momento.
Non con un boato, ma con la dolcezza infinita di una crepa che lascia entrare la luce.
[Racconto terzo classificato e vincitore del Premio Speciale Rotary Parma Est alla XII edizione del Premio Letterario La Quara di Borgo Val di Taro, 2025]




