Nina aveva otto anni e un cappotto rosso sfilacciato all’orlo. Lo indossava anche in casa, nonostante il riscaldamento funzionasse ancora bene. Le serviva come corazza, una barriera contro un freddo che non veniva da fuori. Da settimane, qualcosa di invisibile sembrava aver cambiato l’aria di casa: più ferma, più opaca, come se non circolasse più davvero.
L’appartamento era piccolo, raccolto in un silenzio che sembrava incollarsi alle pareti. Due stanze appena, e un cucinino stretto, dove il frigo vibrava piano e la luce del neon tremolava ogni tanto come un pensiero stanco. La finestra dava su un cortile grigio, intrappolato tra i palazzi, dove i panni stesi oscillavano piano anche senza vento, e le antenne storte e arrugginite sembravano dita tese verso un cielo che non rispondeva.
Il vetro della finestra della cucina era appannato in basso, segnato da piccole dita. L’aria, dentro casa, aveva un odore denso e fermo: brodo dimenticato sul fornello, detersivo consumato, legno umido. E sotto tutto, c’era qualcosa di più sottile, difficile da dire. Un odore come di tempo che non passa, di attesa che non finisce. Qualcosa che pesava sulle spalle, sugli oggetti, perfino sulla voce — che infatti, da settimane, sembrava non voler più uscire dalla bocca della madre, che passava le giornate nel letto, rannicchiata sotto una coperta troppo sottile per davvero scaldare. Il volto rivolto al muro, come se anche solo guardare il mondo fosse diventato un peso.
Non parlava. Non piangeva. Restava lì, con il corpo che sembrava più leggero ogni giorno, come se lentamente si stesse sciogliendo, diventando trasparente. Ogni gesto sembrava impossibile: alzarsi, rispondere, anche solo cambiare posizione. Respirava appena, con quel ritmo lento e misurato di chi non è sicuro di voler restare.
Nina si sedeva accanto a lei ogni giorno, con le gambe a penzoloni che sfioravano appena il pavimento. A volte le prendeva la mano e la stringeva forte, ma era come toccare qualcosa di lontano. Una presenza che c’era, ma guardava da un’altra parte.
«Hai perso il sole negli occhi» le disse un pomeriggio, dopo la merenda. Sua madre non rispose. Ma Nina lo disse lo stesso, come fosse una diagnosi. E dentro di sé prese una decisione silenziosa, come solo i bambini sanno fare: avrebbe riportato quel sole indietro.
Il piano cominciò in silenzio, con la serietà che solo i bambini sanno dare alle cose invisibili. Ogni mattina, prima di infilarsi la cartella sulle spalle, Nina si chiudeva per qualche minuto nella sua cameretta e sceglieva con cura un foglietto. Li strappava dai suoi quaderni più belli, quelli con le copertine rigide e i margini azzurri, sempre con un leggero senso di colpa: sapeva che non si dovrebbe, ma sapeva anche che certe cose importanti non seguono le regole. Poi prendeva le matite. Ne teneva un mazzetto in una scatola di latta, consumate. Sceglieva ogni colore con un criterio che conosceva solo lei: il blu per le balene, il giallo per i sorrisi, il viola per le notti che non fanno paura.
Insieme ai disegni, scriveva. A stampatello, con le lettere tutte storte ma piene di intenzione: “Mamma, oggi ho messo il profumo dei fiori nel pane.”, oppure, “Se chiudi gli occhi, io ti invento un mondo migliore.”
Non firmava mai. Non ce n’era bisogno. Ogni biglietto veniva appoggiato con cura sul comodino, accanto alla tazza vuota del tè del giorno prima, tra una confezione di fazzoletti aperta e un vecchio libro chiuso da troppo tempo. Sempre nello stesso punto. Sempre con lo stesso piccolo tremore nel petto, mentre lasciava la stanza senza dire nulla.
Non riceveva risposta. Ma quando tornava da scuola, il foglietto era sparito. Piegato, forse conservato, forse gettato. Non lo sapeva. Eppure, per Nina, quello bastava.
Ogni pomeriggio le preparava il tè. Usava la tazza con i girasoli, quella scheggiata sul bordo. La preferita di sua madre. Scaldava l’acqua nel microonde e ci immergeva una bustina che ormai aveva perso quasi tutto il sapore. Ma Nina la chiamava “aroma fiaba” e la portava a sua madre con due biscotti secchi su un vassoio traballante.
Entrava in camera in punta di piedi, appoggiava il vassoio sul comodino e si sedeva in silenzio. Sua madre non parlava, ma dopo qualche minuto, Nina sentiva il tintinnio leggero del cucchiaino battente sulla ceramica: stava bevendo. E quel suono era per Nina come una goccia d’acqua nel deserto.
Un mercoledì di aprile, con la pioggia che picchiettava sui vetri, Nina si sedette accanto al letto con un blocco di fogli e i pastelli a cera.
«Facciamo una lista dei desideri?» propose. Sua madre la guardò un istante, poi tornò a fissare il soffitto.
«Non ho desideri» mormorò, con voce spenta. «Allora li invento io per te» disse Nina, e si mise a scrivere, la lingua tra i denti per la concentrazione:
- Vedere una giraffa dal vivo.
- Mangiare pancake per cena.
- Sentire il rumore del mare dal divano.
- Ballare sul terrazzo con le ciabatte.
Ne realizzarono uno al giorno.
Il giorno dopo, Nina disegnò una giraffa gigante sulla finestra con un pennarello blu. «È dal vivo, se la guardi con fantasia» disse seria.
Il venerdì tentò di cucinare dei pancake usando farina, acqua e un cucchiaio di marmellata. Li bruciò un po’, ma li impiattò lo stesso, con una faccina di zucchero a velo. Sua madre ne assaggiò metà. Non disse nulla, ma si passò la lingua sulle labbra.
Sabato fu il giorno del mare. Nina aveva scaricato dal computer della scuola un audio con il rumore delle onde. L’aveva aiutata il maestro a farlo. Lo mise in loop, si avvolse in una coperta e si sedette sul divano. Convocò anche sua madre, che dopo la fatica di alzarsi si lasciò condurre. Stettero lì, una accanto all’altra, in silenzio. Il mare finto riempiva la stanza. Nina chiuse gli occhi. Immaginò la sabbia sotto i piedi, il sale sulle labbra, la mano della madre che stringeva la sua.
Il quarto desiderio arrivò in un pomeriggio di sole pallido. Il terrazzo era minuscolo, con due sedie di plastica e un vaso con una pianta secca.
Nina mise una vecchia canzone che parlava di stelle e abbracci. Poi tese la mano. «Dieci passi» disse. «Solo dieci.»
Sua madre abbassò lo sguardo. Poi, lentamente, si alzò. Barcollò, ma Nina la sostenne. Le mani erano leggere, la pelle un po’ fredda. Ballarono. O meglio, si mossero avanti e indietro, goffamente, con le ciabatte che strisciavano sul cemento. Nina rideva. Sua madre no, ma qualcosa le tremava sul viso. Forse un sorriso. Forse il primo, dopo tanto.
Una settimana dopo, tornando da scuola, Nina trovò la porta della camera aperta. Il letto rifatto. La finestra spalancata. La casa profumava di sapone. Sul tavolo della cucina, una tovaglia stirata e due piatti: pancake veri, con lo sciroppo.
Sua madre era lì, seduta. I capelli ancora un po’ spettinati, ma si vedeva che ci aveva provato. Le occhiaie profonde, ma lo sguardo diverso. Non pieno di sole, non ancora. Ma nemmeno più vuoto.
«Li ho comprati alla Coop» disse, evitando il suo sguardo. «Volevo sorprenderti.»
Nina si sedette. Il cuore le batteva fortissimo, come un tamburo in mezzo al petto. Sua madre le prese la mano, e per la prima volta da mesi, gliela strinse.
«Hai fatto un miracolo, Nina.» Lei la guardò seria. «Era il mio piano da sempre.»
Nina non guarì sua madre. Ma le insegnò, giorno dopo giorno, che anche nel buio più fitto si può trovare una crepa. Un piccolo spiraglio da cui entra la luce.
Sua madre non tornò quella di prima. Tornò qualcosa di nuovo. Qualcosa che sapeva di fragilità e di coraggio. Qualcosa che sapeva prendersi cura.
Perché a volte, prendersi cura non significa aggiustare qualcuno. Significa esserci. Anche quando non sai bene come. Significa restare, quando sarebbe più facile andare via.
E significa che, anche se sei solo una bambina con un cappotto rosso sfilacciato e ti sembra di non essere abbastanza, puoi essere il miracolo di qualcuno.
[Racconto vincitore della prima edizione del Premio Letterario Nazionale Quinto Vicentino – Villa Thiene, 2025]

2 Commenti
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Grazie Amina
E’ un bel racconto che porta emozione e speranza👍😘
Grazie Carlo 🙂